Girotondo

Girotondo è un associazione culturale NO PROFIT nata per aiutare
i genitori ad affrontare meglio il loro “ruolo genitoriale”
sostenendoli nel difficile compito dell’educazione dei propri figli
Girotondo nasce dall’entusiasmo umano e professionale di una manciata di persone motivate; dal 2011 entra nelle case delle famiglie gratuitamente invitando a raccogliere la sfida che la genitorialità pone con coraggio, responsabilità ma anche e soprattutto con entusiasmo e creatività, riscoprendo la sua dimensione di viaggio elettivo dell’anima ai confini avventurosi della fantasia.
Girotondo vuol dare informazione, fornire approfondimenti scientifici, sostegno e produrre azioni concrete per la diffusione di un benessere comune, in particolare a favore dei nostri figli, che sono il futuro, la nostra risorsa. Quindi Girotondo si propone di svolgere un “ruolo sociale” utile a colmare quel vuoto d’informazione che persiste a tutt’oggi nel “sostegno genitoriale”.
Girotondo ha origine da un incontro fortunato tra Cristiana Chiapparelli, giornalista esperta in comunicazione e Silvia Schiano di Tunnariello – pedagogista, coordinatrice della scuola per bambini dai 6 mesi ai 6 anni “L’isola che non C’è”, che per la rivista si occupa della coordinazione del Comitato Scientifico; con la collaborazione di Ilaria Zamboni, counselor relazionale, esperta in comunicazione che cura il marketing e l’immagine di Girotondo.
Girotondo è un progetto a sostegno delle famiglie, nato da mamme per altre mamme… un progetto in crescita esponenziale che vede ogni giorno affiancarsi tante mamme e papà volontari, un vero e proprio stuolo… ma anche nonni, zii e simpatizzanti dei bambini che permettono al progetto Girotondo di esistere sul loro territorio e di progredire raggiungendo un numero sempre crescente di bambini nelle scuole d’appartenenza.
Girotondo è quindi sempre in cerca di altre persone volontarie per diffondere sempre più capillarmente questo progetto di sostegno alle genitorialità nato da mamme per altre mamme! Se vi interessa collaborare con noi, contattateci: info@rivistagirotondo.it
“Autismo, autismi”
un dramma e le sue declinazioni possibili
Innanzitutto, ringrazio la dr.ssa Pinci che nel suo articolo sull’autismo ha fornito in breve le linee d’intervento fondamentali per la costruzione di un progetto terapeutico che guardi al bimbo e alle famiglia.
Partirei da due domande: Cosa precede la diagnosi? Cosa segue alla diagnosi di autismo, quest’ultimo punto in relazione allo specifico terapeutico della psicomotricità?
PRIMA… “qualcosa non va” anche se ancora non lo capisco, lo sento dalle differenze che leggo tra il mio bambino e gli altri che confermano alcuni timori nati dalle difficoltà di interazione in casa “non mi guarda quasi mai… mi sembra distante”. Molte sono le frasi che in questa fase di solitaria angoscia abitano i genitori, il cui primo gesto di solito è, prima ancora di interpellare un Neuropsichiatra infantile, ricercare informazioni su internet, ad es. su Google 11.900.000 risultati (0,25 sec.). Non sempre questa ricerca facilita l’individuazione di soluzioni efficaci, proprio in una fase dove la precocità dell’intervento è fondamentale.
Il nido e la scuola dell’infanzia spesso rappresentano lo scenario ove prendono corpo le difficoltà di relazione del bimbo e da cui prende il via la costruzione di un invio alla Neuropsichiatria per iniziare l’iter diagnostico. Ricorderò le parole chiave dell’articolo citato:
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L’intervento deve essere intensivo e curricolare,
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le esperienze quotidiane possono assumere una valenza terapeutica,
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la rete di interventi coinvolge ogni ambito della vita del bambino,
DOPO E LA PSICOMOTRICITA: In questo quadro la psicomotricità costituisce, seguendo in questo le linee guida del SINPIA, un’importante strumento per lavorare la dimensione propriamente relazionale attraverso:
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giochi di attivazione sociale: sotto forma di giochi faccia a faccia nei quali sono implicati processi di regolazione, di attenzione e di scambi comunicativi;
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giochi di esplorazione e uso sociale dell’oggetto: il gioco si organizza partendo dall’individuazione degli oggetti che attirano l’attenzione del bambino in modo che possano costituire un ponte relazionale con l’adulto verso la condivisione dell’oggetto in un gioco condiviso;
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il gioco sensomotorio a valenza rappresentativa: molto spesso questi bambini hanno un’attività motoria frammentata, caotica e il cui senso ci sfugge, lo psicomotricista, ponendosi a fianco del bambino, non cerca di “insegnargli” qualcosa ma, partendo dalla valorizzazione dalle sue azioni spontanee, apre alla possibile scoperta di altre declinazioni motorie che possano portarlo a conquistare sempre maggiori abilità di movimento e il piacere ad esse collegato.
Il gioco, dunque, costituisce lo spazio-tempo nel quale, seguendo le attitudini e gli interessi del bambino, ci si affianca a lui senza invaderlo con l’intento di co-costruire il progetto terapeutico.
La psicomotricità rappresenta uno valido strumento solo se inserito in un progetto di ampio respiro che faccia dei bisogni della famiglia e del bambino il perno sul quale strutturarsi.
“Io gioco, tu giochi… noi giochiamo”
Fiumi d’inchiostro hanno raccontato i molteplici sensi del giocare e del gioco tanto infantile quanto adulto, e sarebbe un gesto inopportuno fare di quest’occasione un infelice “bignami” su tale argomento. Non resta allora che rivolgerci ai bambini, gli esperti che, nel corso del tempo, mi hanno pazientemente accompagnato nella scoperta del senso dei loro giochi, itinerari lungo i quali ho dovuto mettere da parte i saperi codificati per partecipare con stupore al viaggio.
Essere partner simbolici significa garantire ai bambini che la nostra posizione sarà “sufficientemente buona” e che, nella nostra perfettibilità, saremo sempre disponibili a modularci al meglio… in fondo, il gioco è il campo esperienziale nel quale ognuno di noi ha costruito la sua prima mappa del mondo, ove abbiamo misurato le distanze e i ritmi, le relazioni, provando cose difficili che rappresentavano per noi il segno di un momento di crescita. Quante volte nell’ingaggio ludico risuonano frasi quali “Sono il Re!!… Sono la Regina!!”, veri e propri progetti, ponti verso il loro futuro, il momento della loro definitiva affermazione come soggetti capaci, ma che, nel loro presentificarsi all’adulto, non possono essere accolte nel loro senso letterale, “adesso io sono il Re e ti sono superiore”, bensì trasformate nella dichiarazione di un futuro a venire che ora vive del limite della nostra presenza, una presenza di protezione e sostegno.
In fondo, il gioco è lo spazio ove si sviluppa la relazione fondamentale con le regole e i limiti, soli elementi sui quali il bambino sa che potrà fondare la sua costruzione di soggetto. Ogniqualvolta, mi sono trovato a misurarmi con bambini delle più svariate età definiti “iperattivi” e/o “senza regole”, quando non v’erano delle basi fisiologiche, ho incontrato persone che, attraverso modalità certamente estreme, cercavano di formulare domande essenziali alla loro crescita e che, non trovando l’ascolto necessario, esplodevano nell’attacco all’adulto di riferimento, fosse un genitore piuttosto che l’insegnante. “Ti colpisco perché sono solo con le mie paure, i miei bisogni e non vedo altro modo per portare la tua attenzione su di me”, frase la cui realtà assume un peso specifico via via crescente con il diminuire dell’età del bambino e delle loro possibilità di “dirci ciò di cui hanno bisogno”. Lo sguardo, in queste situazioni, dovrebbe cercare di mettere a fuoco lo sfondo nel quale si muove questo piccolo proiettile , infatti, è lì che potremo ritrovare la verità di quella corsa o di quel colpo dato al compagno che, se nella maggior parte dei casi rappresentano una richiesta di modulazione, “mi aiuti a regolarmi in modo tale che sia poi in grado di farlo da solo?”, in situazioni più estreme, rappresenta l’unica modalità di raccontare disagi e traumi profondi, senza necessariamente descrivere la scena del trauma, cosa tanto più vera quando ci si trovi di fronte ad abusi o maltrattamenti.
Il gioco con leggerezza ci può permettere di riconoscere al bambino traumatizzato il diritto essere arrabbiato, dando una direzione alla rabbia che lo abita e mettendosi al suo fianco assicurandolo del fatto che “faremo di tutto per proteggerlo da ulteriori ferite”. Purtroppo, diverse sono le immagini che abitano queste mie parole e sono giochi, parole, volti che troppo spesso non venivano viste nella loro urgenza ma derubricate ad gesti violenti del tutto gratuiti.
Se il gioco può insegnare qualcosa a noi grandi è quello di riscoprirlo come spazio di creazione e formazione del soggetto che, fuori dalle mirabolanti imprese con tablet e smartphone a cui i nostri bambini sono tristemente avvezzi, è nel dialogo dei corpi-parola nel loro ingaggio ludico che aiutiamo il bambino a costruire una mappa efficacie del mondo.
Tutto questo non avrebbe nessun senso se non ci si soffermasse su di un’urgenza molto spesso messa in campo dai bambini, il bisogno di riti di passaggio che li aiutino a scandire il loro processo di crescita. In una società di consumo che abbisogna dell’infantilizzazione dei soggetti in quanto “produttori/consumatori” ciò che interessa non è scandire la crescita attraverso la formazione di un pensiero critico quanto piuttosto indurre bisogni, istillare desideri.
A fronte di quest’orizzonte, a dispetto di tutto, i bambini, in quella che non posso che definire la loro profonda saggezza, chiedono nel gioco di costruire veri e propri dispositivi di misura delle loro forze di soggetto, riti di passaggio nei quali misurare la loro forza e le loro capacità e nei quali cementificare quell’alleanza di classe d’età essenziale al processo di autonomizzazione dalla famiglia.
Una mamma per scrivere questo breve articolo mi ha regalato queste domande alle quali non so se ho risposto ma che hanno rappresentato per me il riferimento costante:
“quanto si impara giocando?
Quanto è importante per i bambini il gioco?
Cosa significa veramente nel loro immaginario?
Come possiamo noi adulti attraverso il gioco interagire con loro?
Come i loro giochi ci aiutano a capire i bambini?”
Scuola primaria e psicomotricità, alla ricerca del corpo perduto.
Molti interventi sia in questa sede che nelle numerose pubblicazioni dedicate ai bambini hanno efficacemente descritto il delicato passaggio tra scuola dell’infanzia e la scuola primaria, per tale ragione mi focalizzerò sul mutamento di paradigma imposto ai bambini nella relazione con il loro corpo al momento dell’entrata nella Primaria.
Il corpo da vettore di conoscenza e costruzione di consapevolezza diventa, improvvisamente, nella scuola Primaria un oggetto alieno agli obiettivi dei programmi educativi al punto da rappresentare un vero e proprio ostacolo alla normale didattica quando non si dimostri bastantemente educato. Se il bambino mostra una certa irrequietezza e un non sufficiente livello attentivo, magari “aggravato” da una certa aggressività nelle condotte, scatta subito l’acronimo BES (Bisogni Educativi Speciali) col quale si invita la famiglia ad attivarsi per una qualche certificazione, si può andare da una semplice Iperattività alla dislessia, ambito diagnostico in sorprendente espansione.
Segno questo, a mio avviso, di una scuola in difficoltà nell’accogliere i bambini nella loro globalità che, imponendo loro una rimozione forzosa del corpo, relegandolo ai soli momenti di gioco libero durante l’intervallo o alle canoniche due ore settimanali di educazione fisica, perde di vista i bisogni espressivi e le potenzialità cognitive intimamente legate alla corporeità.
In questo scenario l’attivazione di percorsi di psicomotricità:
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può costituire un valido ponte tra l’espressione dei bisogni dei bambini e la declinazione delle norme che regolano lo stare nello spazio tempo della classe;
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aprire ad una riflessione cooperativa col gruppo docente sulle fonti del disagio educativo in classe e/o di quello che può nascere dal confronto con alcuni bambini particolari, cercando il senso delle loro condotte “problematiche” oltre che modalità e strumenti in grado di trasformare le relazioni adulto-bambino;
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offre alle famiglie un momento di scambio e scoperta che talvolta può aprire a nuovi sguardi sui figli.
Per sommi capi un intervento psicomotorio dovrebbe offrire ai bambini:
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uno spazio di libera espressione ove le regole dello stare insieme sono co-costruite e non imposte dall’adulto;
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la certezza che, ove si manifestassero difficoltà nel gruppo, queste cadrebbero nella diretta responsabilità dell’adulto al quale spetta l’obbligo di garantire il loro diritto a trovare nell’attività un momento di benessere condiviso ed evolutivo. A tale riguardo, ogniqualvolta mi trovo ad affrontare passaggi delicati, cerco la soluzione dai bambini e, immancabilmente, se riesco a seguire le loro indicazioni le criticità si sciolgono;
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un adulto in grado di creare spazi di elaborazione e delineare posizioni di gioco che accompagnino i bambini nella costruzione di una sempre più consapevole autoregolazione per il tramite di opzioni di scelta che li rendano protagonisti responsabili delle loro scelte.
Al contempo, per i docenti osservare i bambini in azione rappresenta la possibilità di:
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scoprire le risorse inespresse in seno all’attività curricolare che, se riconosciute, potrebbero trovare spazio in un mutato quadro relazionale riconoscendo al bambino difficile un proprio sapere/saper fare da offrire al gruppo classe;
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riflettere sulla propria posizione ed escogitare strategie di comunicazione efficacie che abbassino i livelli di reattività nelle comunicazioni. Un gruppo docente ha, facendo risorsa di una mia indicazione che suggeriva di dare agli alunni un indicatore visivo dello stato di disagio delle insegnati prima che ci fosse l’inevitabile urlata, elaborato un termometro della “arrabbiatura dell’insegnate” sulla cui scala veniva spostato un quadrato il cui salire rispetto al livello 0, determinava conseguenze conosciute dalla classe. L’aspetto per me più significativo che i docenti abbiano costruito uno strumento che li porta necessariamente a “riflettere” sul loro stato interno prima di urlare alla classe e al contempo, rendendo visibile lo stato emotivo del docente, permette alla classe di autoregolarsi per non incorrere nelle sanzioni.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi ma, volendo cercare una chiusa efficacie, ricordo che già nel V sec. a.C. si era usi dire che “puoi scoprire di più riguardo a una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”, senza dimenticare per apprendere i ragazzi dovrebbero essere guidati “per mezzo di ciò che li diverte.” e per ciò stesso senza dimenticarne il corpo.
“C’era una volta, tanto tanto tempo fa…” Dove iniziano le storie?
Una cosa mi hanno insegnato i bambini: “segui le nostre tracce e scoprirai l’inatteso”, sentiero non sempre facile da intraprendere, affezionati come siamo ai nostri principi di realtà, alle nostre teorie esplicative. Alle volte però non possiamo che arrenderci alla forza dell’evidenza. Chiamerò “Virgilio” la guida che, 19 anni fa, mi insegnò a guardare diversamente i giochi dei miei piccoli compagni di viaggio.
Nel 1997, “Virgilio”, 6 anni, ha da poco iniziato la prima elementare e su consiglio delle insegnati, a seguito di evidenti difficoltà di linguaggio, cui si unisce una goffaggine importante e il sospetto di un ritardo cognitivo, viene inviato presso il centro ove lavoravo.
Il primo incontro osservativo: le difficoltà si manifestano immediatamente ma, malgrado tutto, Virgilio presenta una grande determinazione e il desiderio di riuscire nel progetto di gioco che mi aveva proposto, “diventare pirati, conquistare un tesoro e nasconderlo” … il tutto sembrava seguire lo schema classico “vestizione, individuazione del tesoro, sua conquista a seguito di memorabili battaglie e sepoltura dello stesso in una grotta” … Nell’impeto dello scontro, le difficoltà di parola e movimento, pur presenti, venivano superate dalla grande energia messa in campo dal bambino, senza che ci fossero scostamenti dal quadro di presentazione.
Una volta conquistato il tesoro, Virgilio decide di entrare nella “grotta”, una botte di plastica riversa a terra la cui apertura risultava un po’ angusta, malgrado la difficoltà non accetta aiuti e, una volta liberato l’interno dal tesoro passato nella mia responsabilità, Virgilio costruisce la sua entrata, impiega 15 minuti, mentre io devo solo garantirgli di essere lì al suo fianco. Una volta entrato si raggomitola in posizione fetale e, dopo poco, con voce ferma, chiara, senza inciampi così dice: “qui mi è stata rubata la scintilla”.
La selva oscura: sentii un brivido, per quelle parole inattese. Virgilio in un solo momento m’aveva messo a parte dell’origine del danno e di quello che avrebbe potuto essere il progetto terapeutico. Parlai con la mamma domandando se durante la gestazione si fosse verificato qualche evento particolarmente significativo. Ne uscì un quadro molto doloroso fatto di rotture, abbandoni, ripetuti rischi di aborto spontaneo e in ragione di queste difficoltà un personale quadro depressivo dal quale non era ancora uscita. Virgilio nei 9 mesi della gravidanza si era “nutrito” di tutto questo riportandone un grave danno neurologico.
L’entrata in questa selva oscura e la guida sicura dei molteplici “Virgilio” del momento, negli anni, mi ha permesso di affinare l’ascolto delle storie infantili consentendomi di costruire, secondo le loro indicazioni, veri e propri dispositivi di gioco “prenatale” nei quali , una volta data simbolicamente forma all’ambiente uterino, davamo corso ai progetti di cura… ogni pancia ha raccontato la sua storia e indicato una possibile uscita trasformativa, come per esempio:
il seppellimento di fratelli morti di cui erano la “riparazione”;
la lotta contro l’ombra della depressione materna;
la lotta contro le violenze subite dalla madre durante la gravidanza.
In un sedimentarsi di storie che ancora continua e rappresenta uno dei cammini più complessi e affascinati che abbia mai percorso.
Settembre andiamo è tempo… e se mi dicono?
Settembre. Le scuole riaprono i battenti e nel flusso di bimbi e adulti tornano a galla i classici pensieri che abitano ogni genitore, dai novizi alla prima esperienza ai più navigati accompagnatori: “come starà mia/mio figlia/figlio? Chi saranno le insegnanti? … ”, “chissà come andrà quest’anno?”, “speriamo che tizia/Caio non ci sia più”.
Pensieri abitati, talvolta, dal timore di domande o affermazioni difficili: “ma è sempre così particolare?… è sempre così agitato? … Non conosce proprio i limiti!…”. Il quadro di normale affanno, in quest’ultimo caso, si colora di ansie che in alcune situazioni possono diventare vere e proprie angosce oltre che fonte di sensazioni di inadeguatezza e difficoltà.
“Che fare?” quando la scuola diventa il luogo di messa in evidenza di un disagio o di una difficoltà del nostro bambino è fondamentale creare un ponte con le insegnati e i responsabili pedagogici della struttura al fine di concordare una strategia evolutiva che rispetti al meglio il bambino e le domande dei genitori.
A questo primo essenziale passaggio, potrebbero seguire l’individuazione di risorse quali: colloqui con un Neuropsichiatra infantile che possa osservare il bimbo e indicare percorsi di cura che ne potenzino al meglio le risorse o la consulenza per un aiuto sulla genitorialità. A questi primi passi, potrebbe seguire un’osservazione psicomotoria che, solitamente, offre un quadro delle risorse del bambino in grado di implementare l’osservazione del Neuropsichiatra infantile.
A fronte delle difficoltà su accennate la psicomotricità svolge un sicuro ruolo nel mettere a fuoco le risorse del bambino quando sia inserita nel curriculum scolastico in quanto, offendo ai bimbi in difficoltà uno spazio di libera espressione, consente, in primis agli insegnanti, d’individuare i fattori relazionali ed ambientali che, se trasferiti in seno alle attività quotidiane della sezione, possono promuovere il benessere dei soggetti in impasse.
Naturalmente, per lo psicomotricista, se è importante il lavoro di rete con insegnanti, pedagogisti e specialisti dell’area infantile, la costruzione di una buona relazione coi genitori resta fondamentale al fine di dar corpo a uno spazio di reciproco aiuto nella costruzione del progetto di cura.
Infatti, un genitore aiutato a ridurre ansie e angosce costituisce il più prezioso alleato nel consolidamento di questo progetto.
Sin qui si è delineato un quadro ideale, ma non si può dimenticare che talvolta:
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Le difficoltà dei team educativi,
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La rigidità degli specialisti coinvolti,
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La fatica di alcune famiglie ad accettare la situazione di difficoltà del bambino,
sono elementi che potrebbero rendere complessa la costruzione di un progetto efficace.
Tuttavia, credo con forza che, pur se in difficoltà e in una situazione complessa, i genitori rappresentano l’insostituibile fondamento per la crescita felice dei figli.
Ma che aspettate a batterci le mani…
Proprio a pochi giorni dalla morte di Dario Fo riflettere sulla categoria “cattivi maestri” risulta stimolante poiché ci ferma alle nostre responsabilità di adulti.
A 52 anni posso dire di aver assistito alla mutazione antropologica di un elettrodomestico che, da strumento aglutinante, come insegna Tullio De Mauro, di una cultura nazionale in via di formazione, è diventata il simulacro di una società decaduta in tutti i suoi valori di solidarietà, dedita alla celebrazione narcisista e al raggiungimento del proprio interesse particolare.
L’elettrodomestico, pur mutato nelle forme e nella componentistica, di per sé non ha nulla di malvagio, tuttavia, ciò che è cambiata è stata la sua progressiva centralità nel quotidiano di un tessuto, prima sociale poi familiare, sempre più disgregato e disorientato. Orwell l’aveva anticipato, omologazione e controllo fanno di ognuno di noi gli oggetti ideali di un sistema che ci vuole desideranti produttori/consumatori di beni materiali e immateriali e al cui interno il portato dei vari strumenti di distrazione di massa è funzionalizzato a renderci soggetti sempre più distanti da un pensiero critico votati alla massificazione delle forme espressive.
In tutto questo dove finiscono i bambini? In un inghiottitotio nel quale i molteplici supporti elettronici divengono sostituti genitoriali virtuali a cui affidare nostri figli nei momenti di stanchezza, per poi magari lamentarcene quando cerchiamo richiamare la loro attenzione “possibile che tu sia sempre attaccato a quel coso?”.
Ragionare di quali potrebbero essere i contenuti più consoni alla crescita di un bambino mi sembra una falsa questione, quasi che una dipendenza dovesse trovare un modo di sciogliersi mutando l’oggetto della dipendenza stessa. Se le dipendenze parlano di assenze di cui cercano sostituti appare chiaro che se non si risponde alla mancanza si sostituisce solo la sostanza. Non credo che sia l’elettrodomestico l’oggetto da bonificare bensì il nostro quotidiano costantemente minacciato da “paure sociali indotte”, populismi rinascenti e qualunquismo senza fissa dimora. In questo trambusto la televisione, i tablet, gli smartphone possono costituire il mezzo per ciò che Lacan chiamava “il discorso del padrone” e che Dario ci mostrava come avesse agito nel corso dei secoli oppure eccellenti strumenti di libero pensiero in grado di metterci in contatto con storie, prodotti dell’ingegno umano e naturale di incredibile potenza. È nostra responsabilità emanciparci in quanto adulti dal senso comune aiutando nostri figli nella costruzione di uno spirito critico, senza cercare di “insegnare ai bambini”, per dirla con Gaber: “Non insegnate ai bambini non insegnate la vostra morale è così stanca e malata potrebbe far male […] non indicate per loro una via conosciuta ma se proprio volete insegnate soltanto la magia della vita […] Non insegnate ai bambini ma coltivate voi stessi il cuore e la mente stategli sempre vicini date fiducia all’amore il resto è niente”.